Protesi retiniche: ridare la vista è possibile!

Ci sono espressioni nella nostra lingua che sono diventate proverbiali come “cavar sangue dalle rape” oppure “raddrizzar le gambe ai cani” oppure ancora “ridato la vista ai ciechi”. Quest'ultima possibilità, ben lungi dall'essere semplicemente un assurdo in termini, potrebbe davvero essere una realtà del futuro. Con le protesi retiniche.

La cecità è semplicemente un incubo. Si tratta di una forma di disabilità alla quale tutti noi non pensiamo mai troppo seriamente. Ridare ad un uomo la capacità di vedere, come di sentire, è parte della tecnica, dell'ingegneria e della medicina di oggi. La parte più nobile, probabilmente.

All'Università di Stanford, un nome che non ha affatto bisogno di presentazioni, è stata sviluppata una protesi retinica in grado di restituire la vista ai pazienti che soffrono di disturbi degenerativi della vista, come la degenerazione maculare della retina. (NB: il link è suggerito solo a scopo conoscitivo e di approfondimento. In alcun modo si ritiene esaustivo da un punto di vista medico!)

Questa patologia è una delle più frequenti cause della perdita della vista nel mondo occidentale moderno; si tratta di una malattia degenerativa correlata con l'età, la cui eziologia non è nota con certezza ma pare essere il frutto diretto dello stile di vita moderno.

Nelle condizioni in cui il soggetto si trova quando è malato, le cellule foto-ricettive degenerano lentamente portando anche, nei casi più gravi, alla completa cecità bilaterale.

La stimolazione elettronica delle cellule retinali rimanenti (funzionanti) può portare alla percezione della luce, prima ancora che di alcune forme; i primi impianti retinici che coinvolgono un basso numero di elettrodi (da 16 fino a 60) hanno portato risultati molto incoraggianti in pazienti che presentano questo tipo di patologia. Ciò nonostante, è assolutamente indispensabile che il sistema possa prevedere l'utilizzo di diverse centinaia di pixel per poter “abilitare” nuovamente il paziente alla visione completa, per esempio per permettergli nuovamente una lettura scorrevole o apprezzare i dettagli su un viso.

Lo sviluppo di sistemi retinali ad alta definizione richiede, com'è facile intuire, il superamento di molte sfide che sono definite su diversi campi, non solo medico né tanto meno soltanto ingegneristico, ma anche biologico: il trasferimento di informazione proveniente da centinaia di pixel diversi per raggiungere un determinato “video rate”, il posizionamento degli elettrodi nella posizione più vicina possibile alle cellule obiettivo, il signal processing che possa compensare la potenziale perdita di funzionalità neuronale. E queste sono solo alcune delle sfide aperte.

Questo alto grado di interdisciplinarità del progetto è stato il motivo per cui il gruppo di studio ha incluso al suo interno specialisti provenienti da ben quattro dipartimenti diversi: oftalmologia, l' “Hansen Experimental Physics Lab”, ingegneria elettronica e neurobiologia.

Vediamo i dettagli del progetto: il flusso di dati che proviene dalla videocamera viene processato da un pc di piccolissime dimensioni; le immagini risultanti vengono mostrate su un micro display a cristalli liquidi. Sostanzialmente si è riusciti a fare tutto facendo indossare degli occhiali ai pazienti.

Il display, che fornisce un angolo di visuale di circa 30°, viene illuminato tramite un laser pulsato di lunghezza d'onda pari a 900 nm per una durata di 0,5 ms. l'immagine viene proiettata attraverso gli occhi direttamente fin nella retina. L'immagine “a infrarossi” viene poi ricevuta dai pixel che agiscono per effetto fotovoltaico e sono parte di un chip subretinale impiantato nel soggetto.

Ciascun pixel converte la luce impulsata in un segnale di corrente elettrica bifasica proporzionale in modo tale da introdurre informazioni visive all'interno del tessuto retinale danneggiato.

La scelta di utilizzare l'approccio di tipo ottico al trasporto dell'informazione permette l'attivazione simultanea di centinaia di pixel nell'impianto ed è anche in grado di realizzare un collegamento tra i movimenti degli occhi e la percezione visiva. Così, la sensazione dell'utilizzo risulta certamente più naturale. Dal momento che ciascun pixel fotovoltaico opera indipendentemente dagli altri, essi non hanno necessità di essere fisicamente interconnessi; ciò rappresenta un aspetto della questione molto interessante perché semplifica l'intervento di chirurgia necessario per l'impianto tanto che le stringhe di array possono essere posizionate in maniera non contigua.

Parlando del problema della prossimità, il gruppo ha trovato che micro-strutture tridimensionali possono portare ad un posizionamento contiguo tra l'impianto e la retina. Una delle strategie di impianto prevede l'utilizzo di pilastri che vengano posti a stretto contatto con le cellule interessate.

L'argomento suscita l'interesse non solo dei cultori della materia ma anche dei curiosi ed ha davvero colpito tanto che ne ha parlato persino la BBC.

Restano, di questo progetto, alcune tematiche aperte delle quali, siamo certi, il gruppo sta cercando di venire a capo. Una delle idee, in particolare, potrebbe essere il metodo di alimentazione del sistema; specie per impianti che richiedono interventi anche di piccola chirurgia si va affermando sempre più l'idea che la tecnica dell'energy harvesting rappresenti il futuro.

Nel presente, invece, l'alimentazione a batteria è certamente un tema centrale, non foss'altro che per la durata.

Di questi argomenti, ancorché sotto altre ipotesi, ci siamo occupati di recente analizzando un'applicazione dell'energy harvesting e della durata e della tecnologia delle batterie.

Ma non basta, perché impianto vuol dire biocompatibilità e quindi materiali.

Insomma, tanti spunti e tante idee da sviluppare.

Ed ora, la parola voi…che ne dite?

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2 Commenti

  1. Avatar photo Piero Boccadoro 12 Giugno 2012
  2. Avatar photo CristianPadovano 21 Novembre 2013

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