Negli ultimi anni diversi gruppi di ricerca hanno dimostrato come la tecnologia della stampa 3D possa essere applicata anche nella realizzazione di tessuti biologici e organi. Il cosiddetto bioprinting, la stampa di materiale biochimico e di cellule viventi per la realizzazione di strutture biologiche tridimensionali, è in continua evoluzione. L’obiettivo è quello di poter realizzare un giorno tessuti personalizzati utilizzabili in tutti quei casi in cui a un paziente è necessario un trapianto.
IL BIOPRINTING 3D
Nel XV secolo l’invenzione della stampa, a opera di Johannes Gutenberg, ebbe un impatto straordinario sulla cultura occidentale. Dall’educazione alla politica, dalla religione al linguaggio, essa rivoluzionò praticamente ogni aspetto della nostra società. Il concetto classico di stampa si è poi evoluto, negli ultimi trent’anni, grazie alla possibilità di realizzare oggetti tridimensionali mediante la produzione additiva (stampa 3D), partendo da un modello digitale. Dal 1986, quando Charles Hull brevettò per la prima volta la tecnica della stereolitografia (l’antenato della moderna stampa tridimensionale), questa tecnologia ha permesso di raggiungere risultati molto importanti, passando dalle applicazioni in campo industriale a quelle in ambito medico. Recentemente, la stampa 3D è andata incontro a un’ulteriore evoluzione, grazie alla progettazione di dispositivi in grado di realizzare tessuti e materiali biologici. Il cosiddetto bioprinting consiste infatti nella stampa 3D di materiale biochimico e di cellule viventi, col fine di realizzare strutture biologiche tridimensionali, come organi, ossa, o muscoli, attraverso il progressivo posizionamento (strato per strato) di questi biomateriali (Figura 1).
Oggi giorno, la possibilità di stampare tessuti e organi risolverebbe uno dei maggiori problemi della moderna medicina, quello dei trapianti. Infatti, questi interventi rappresentano spesso l’unica e ultima speranza per salvare la vita di un paziente (solo negli Stati Uniti vengono effettuati ogni giorno circa 80 trapianti di organo), ma il numero di donatori è sempre inferiore a quello dei soggetti in lista d’attesa. Il bioprinting permetterebbe quindi di superare completamente questo problema, grazie alla possibilità di realizzare prototipi biologici in grado di soddisfare specifiche necessità cliniche e, allo stesso tempo, garantire una maggiore compatibilità fisiologica con il soggetto trapiantato, evitando così rigetti e infezioni.
Ma come si stampa un tessuto biologico? Una volta realizzato un modello 3D dell’organo che si vuole riprodurre, è possibile seguire diversi approcci. Il primo si rifà al concetto di biomimetica, e prevede la riproduzione esatta dei componenti cellulari e extracellulari del tessuto target. Per fare ciò è però necessario realizzare una versione in microscala della struttura biologica, disponendo in modo estremamente preciso i diversi tipi cellulari e analizzando nel dettaglio la composizione della matrice extracellulare da riprodurre. In alternativa, alcuni gruppi di ricerca utilizzano il metodo dell’auto-assemblaggio autonomo, un meccanismo che sfrutta le proprietà legate allo sviluppo embrionale delle cellule. In natura le componenti cellulari precoci sono in grado di produrre da sole la loro matrice extracellulare e di provvedere all’organizzazione e comunicazione interna del tessuto, così questa tecnica prevede la stampa di agglomerati cellulari destinati a fondersi tra loro, provvedendo autonomamente al loro sviluppo. Infine, alcuni gruppi di ricerca preferiscono concentrarsi sulla produzione di mini-tessuti, elementi funzionali minimi di cui sono composti tessuti e organi, i quali vengono poi successivamente assemblati per realizzare le macrostrutture desiderate.
TECNICHE DI BIOPRINTING
Il processo di stampa 3D di una struttura biologica prevede almeno tre fasi fondamentali. La prima, detta di pre-elaborazione, consiste nella realizzazione del modello digitale dell’organo o del tessuto che si intende stampare. Questo è possibile grazie all’adattamento di immagini ottenute tramite tomografia computerizzata (TC) o risonanza magnetica (MRI) utilizzando software che permettono la realizzazione di modelli tridimensionali (es. CAD). La seconda fase invece, detta di elaborazione, consiste nel processo di stampa vera e propria, mentre la fase di post-elaborazione prevede una serie di processi e manipolazioni finalizzate a mantenere in vita le cellule contenute nel tessuto stampato, senza alterare le proprietà fisiche e biologiche di quest’ultimo.
Esistono molteplici tecniche per la stampa tridimensionali di materiali biologici, ma le più diffuse in assoluto sono tre:
BIOPRINTING A GETTO D’INCHIOSTRO: questo tipo di dispositivi prende spunto direttamente dal funzionamento delle stampanti inkjet tradizionali e prevede il rilascio di piccole goccioline di bioinchiostro, contenenti ognuna circa 10000 – 30000 cellule immerse in un biomateriale, da ugelli non a contatto col tessuto stampato. Il rilascio delle gocce può essere effettuato e regolato attraverso una modulazione termica, con un elemento riscaldante che causa la formazione di bolle d’inchiostro che spingono le goccioline attraverso gli ugelli, o piezoelettrica, grazie a dei cristalli che, vibrando, determinano la fuoriuscita dell’inchiostro. Queste tecniche hanno il vantaggio di essere relativamente poco costose e, poiché gli ugelli non sono a contatto col materiale stampato, di ridurre le possibilità di contaminazione del tessuto durante il processo. Allo stesso tempo però, le applicazioni sono limitate dal fatto che questo metodo permette di utilizzare solamente inchiostri poco viscosi.
BIOPRINTING TRAMITE LASER: questo metodo, noto col nome di laser-based direct writing (LDW) o laser-assisted bioprinting (LAB), si basa sull’utilizzo di un impulso laser per trasferire singole cellule o gruppi di cellule da una cartuccia sorgente a un substrato, senza passare per un ugello. Questo permette il posizionamento delle cellule, con un elevato grado di precisione, all’interno di strutture 3D relativamente piccole. Poiché non necessita di ugelli, il bioprinting a laser non deve scontrarsi col problema dell’intasamento di cellule e biomateriali nel sistema di rilascio e permette inoltre di stampare inchiostri ad alta viscosità (fino a 300 mPa/s). Tuttavia, anche questo metodo non è privo di difetti e limitazioni: il calore generato dal laser può in alcuni casi causare la morte delle cellule contenute nel bioinchiostro e il processo di stampa, a causa anche dell’elevato grado di risoluzione, può essere molto lungo.BIOPRINTING A ESTRUSIONE: È il sistema più comune e affidabile per la stampa 3D di tessuti biologici. Le biostampanti a estrusione funzionano grazie alla combinazione di un sistema di rilascio di fluidi e un sistema robotico automatico deputato al posizionamento dell’inchiostro. Uno dei vantaggi del bioprinting a estrusione è quello di essere compatibile con un range molto vasto di biomateriali. Esso infatti permette la stampa di inchiostri di viscosità compresa tra 30 e 6 x 107 mPa/s, rendendo possibile l’utilizzo combinato di biomateriali ad alta viscosità, utili a garantire un supporto strutturale al processo di stampa, e a bassa viscosità, che forniscono un ambiente consono a mantenere in vita le cellule. Inoltre, il bioprinting a estrusione permette di stampare tessuti caratterizzati da grande densità cellulare. Tuttavia generalmente le cellule depositate con questo tipo ti tecnica vivono di meno rispetto al bioprinting a getto d’inchiostro, a meno che non si usino pressioni molto basse e ugelli di grandi dimensioni, che però non garantiscono un’alta risoluzione.
IL BIOINCHIOSTRO
Il materiale utilizzato per il bioprinting 3D di tessuti biologici deve soddisfare contemporaneamente sia le necessità biologiche delle cellule che quelle fisiche e meccaniche del processo di stampa. I principali biomateriali utilizzati possono essere divisi in due macrocategorie. Il bioinchiostro più diffuso è il cosiddetto idrogel, molto utilizzato in quanto dotato di proprietà simili a quelle delle matrici extracelullari e poiché permette l’incapsulamento delle cellule in un ambiente 3D che risulta essere allo stesso tempo altamente idratato e meccanicamente stabile. Gli idrogel possono essere di due tipi: naturali o sintetici. I primi sono dei polimeri derivati da biomateriali presenti in natura (es. alginato, collagene, fibrina) e garantiscono un alto livello di biofunzionalità in quanto dotati delle stesse caratteristiche degli ambienti extracellulari dove sono solitamente situate le cellule. I secondi invece sono costituiti da derivati di materiali artificiali (es. pluronici, glicole polietilenico) e hanno il vantaggio di poter essere scelti e sintetizzati a seconda delle necessità fisiologiche del tessuto che si vuole stampare. Spesso però, quest’ultimi risultano caratterizzati da minore biocompatibilità.
L’altro tipo di inchiostri utilizzati per il bioprinting 3D è costituito dai cosiddetti aggregati di cellule. Il funzionamento di questi si basa sull’idea che, poiché in natura le cellule non hanno bisogno di una struttura di supporto per combinarsi in tessuti, allora è possibile realizzare dei composti cellulari in grado di auto-assemblarsi, organizzandosi in sub-unità multicellulari. In questo modo, i tessuti biologici possono essere preventivamente ingegnerizzati, utilizzando specifiche composizioni e forme, in modo da sfruttare le capacità di adesione delle cellule e la loro abilità di crearsi la loro stessa matrice extracellulare. Gli aggregati cellulari, solitamente disposti in sferoidi o fili, possono essere quindi omogenei, se contengono un solo tipo di cellule, o eterogenei, se invece ne contengono diversi, a seconda del tipo del risultato che si vuole ottenere.
Ma quali sono le proprietà che un bioinchiostro deve avere per permettere la stampa di un tessuto biologico o di un organo? In una review pubblicata su Nature Biotechnology nell’agosto del 2014, Sean Murhpy e Antonhy Atala (Figura 2) della Wake Forest University School of Medicine del North Carolina hanno stilato una lista di caratteristiche che un bioinchiostro deve avere per permettere la sopravvivenza delle cellule in esso contenute e allo stesso tempo la buona riuscita del processo di stampa:
- STAMPABILITÀ: I materiali devono poter essere depositati in maniera accurata e precisa nella disposizione spaziale desiderata, permettendo allo stesso tempo un buon controllo temporale sul processo. Il tutto garantendo un livello adeguato di vitalità delle cellule.
- BIOCOMPATIBILITÀ: I materiali devo assicurare un buon grado di coesistenza (assenza di rigetto e altri effetti indesiderati) con il tessuto endogeno con cui si troveranno a contatto dopo il trapianto. Ma non solo, in molti casi si vuole ottenere un contributo attivo e controllabile sulle componenti biologiche e funzionali del costrutto, in modo da provocare specifiche interazioni (es. col sistema immunitario del paziente, di supporto alle attività cellulari) tra il tessuto stampato e quello endogeno.
- CINETICA DI DEGRADAZIONE E BIOPRODOTTI: Quando il materiale dello scaffold degrada le cellule cominciano a produrre la matrice extracellulare del nuovo tessuto. È quindi necessario controllare i tassi di degradazione del biomateriale di supporto (es. idrogel) in modo da far combaciare i tempi di eliminazione di questo con quelli necessari alle cellule per sostituirlo. Inoltre, poiché spesso sono proprio i bioprodotti derivati dal processo di degradazione a definire il livello di biocompatibilità di un materiale, è fondamentale che questi siano non tossici e facilmente metabolizzabili e eliminabili dal corpo.
- PROPRIETÀ MECCANICHE E STRUTTRALI: Il mantenimento di determinate proprietà strutturali (es. forze e punti di ancoraggio) è necessario per la funzionalità a lungo termine di un costrutto. Per questo motivo spesso si includono nel bioinchiostro dei materiali sacrificali in grado di garantire una certa struttura 3D per un determinato periodo di tempo.
- BIOMIMETICA: La capacità di incorporare elementi biomimetici ha effetto su adesione, migrazione, proliferazione e funzione delle cellule, sia esogene che endogene. Questi elementi generalmente consistono in determinate caratteristiche fisiche, come creste, gradini, scanalature che influenzano i processi di assemblamento del tessuto.
BIOSTAMPANTI E SISTEMA ITOP
Per essere considerato efficiente un prototipo destinato alla stampa 3D di tessuti e organi deve avere una serie di caratteristiche fondamentali. In linea di massima, una biostampante ideale è una in grado di garantire un’alta risoluzione e capacità di trasmissione, di dispensare contemporaneamente diversi biomateriali, facile da utilizzare, costruita con materiali non tossici, affidabile e in grado di stampare inchiostri di diverse viscosità. Per quanto al momento nessuna delle biostampanti in circolazione soddisfi tutte queste richieste, è possibile individuare degli elementi comuni tra tutti i prototipi disponibili.
Ogni stampante è infatti dotata di tre elementi essenziali: un sistema robotico di movimento su tre assi, un dispositivo per il rilascio di bioinchiostro e un software che permetta di realizzare modelli digitali di alta precisione. Anche se fino al 2005 tutte le stampanti 3D erano prodotte esclusivamente per uso industriale o di ricerca, e caratterizzate quindi da costi molto elevati e hardware di proprietà, da qualche anno, grazie soprattutto al progetto Fab@Home, si trovano in circolazione stampanti e biostampanti 3D disponibili come hardware open source che possono essere assemblate autonomamente per un uso domestico (Figura 3).
Nel febbraio del 2016 è stato invece pubblicato su Nature Biotechnology uno studio riguardante la performance e le caratteristiche di un nuovo modello di biostampante denominato ITOP (Integrated Tissue-Organ Printer) che al momento rappresenta forse il prototipo più evoluto in circolazione. Realizzato presso la Wake Forest University School of Medicine del North Carolina, questo sistema è caratterizzato da un design a cartucce multiple in grado di rilasciare contemporaneamente idrogel con diverse combinazioni di cellule e due polimeri di supporto, di cui uno sacrificale (pluronic F-127). Ognuna di queste cartucce è collegata a un ugello in microscala, governato da un sistema di controllo ad aria compressa che permette il rilascio del bioinchiostro con la massima precisione. La forma e la composizione corretta del tessuto viene ottenuta dalla combinazione dei dati imaging (mediante CT o MRI) con le condizioni di stampa. Da questa si ottengono un programma di movimenti del braccio robotico sul piano xyz e una serie di comandi per il sistema di rilascio ad aria compressa che vengono trasferiti al processore della stampante 3D che effettua il processo di biofabbricazione. Grazie a questo sistema, i ricercatori della Wake Forest sono riusciti a stampare correttamente un osso mandibolare, un orecchio cartilagineo e un muscolo scheletrico, riuscendo poi a garantire a questi costrutti una maturazione e un organizzazione interna tali da essere già adatti per un trapianto.
PROSPETTIVE FUTURE
Nonostante gli enormi progressi compiuti negli ultimi dieci anni, la tecnologia del bioprinting si trova ancora in una fase embrionale. Le grandi sfide in questo senso riguardano le capacità delle biostampanti di realizzare costrutti caratterizzati contemporaneamente da una ottima risoluzione spaziale e da un elevato grado di biocompatibilità. Inoltre, molti traguardi devono ancora essere raggiunti in termini di densità cellulare dei tessuti, stampabilità, proprietà chimiche dei bioinchiostri, velocità e versatilità delle biostampanti.
Infine, un ulteriore sviluppo in questo campo è rappresentato dalla cosiddetta stampa 4D, che proprio in questi anni sta compiendo i suoi primi passi. Questo concetto prevede la possibilità di realizzare costrutti in grado di modificarsi nel tempo, una volta stampati. Così, applicando questo tipo di tecnologie al bioprinting di tessuti biologici e organi, sarà probabilmente possibile superare molte dei problemi che oggi pongono dei limiti nella realizzazione di materiale biologico in grado di essere trapiantato. Infatti, sarà possibile progettare dei tessuti capaci di evolversi nei modi e nei tempi desiderati al termine della loro effettiva realizzazione, come a voler imitare il processo di maturazione che caratterizza lo sviluppo di un feto all’interno di utero materno.